Panfilo Napoleone

La propensione ad accogliere ed onorare scrittori e poeti, musicisti ed operatori delle arti visive è ormai entrata a far parte di quella peculiare tradizione che Lanciano è venuta sempre più distintamente fisionomizzando e consolidando attraverso attività ed iniziative di non certo marginale rilevanza. D’altronde, all’incisività, per esempio, del ruolo guadagnato nel dipanarsi delle vicende letterarie italiane dalla gloriosa casa editrice Rocco Carabba, riferimento anche degli autori più illustri specialmente nelle più felici stagioni dei quasi cinquant’anni di notorietà acquisita nel campo dell’editoria fra Otto e Novecento, fa riscontro la vitalità del Premio Nazionale di Poesia dialettale, il primo, fra i concorsi di tale specifico orientamento, ad assumere in Italia, quando fu istituito nel 1965, un respiro ed una rilevanza di indiscusso spessore, al pari di quanto può dirsi per gli incontri musicali promossi in questa Città, pronta a convocare ed accogliere ogni anno personalità di prima grandezza e giovani talenti provenienti da varie parti del mondo per favorire un prezioso interscambio di esperienze e di studio.

Per quanto attiene alle arti visive, Lanciano ha dato i natali ad alcuni Maestri di non poco rilievo specialmente nell’ambito delle pittura, da Polidoro di Mastro Renzo, il vigoroso allievo di Tiziano, e da Giuseppe Palizzi, il maggiore dei celebri fratelli, che vissero ed operarono lontano dalle sue mura, fino a Federico Spoltore per il quale, invece, essa rappresentò l’auspicato rifugio nelle rare pause del lungo peregrinare fra le capitali europee e d’oltre oceano, a cui lo costrinse il precoce e crescente successo, ed equivalse all’approdo infine prescelto per oltre un ventennio di quasi ininterrotta presenza. Anzi, don Federico, come egli veniva e viene qui tuttora additato, la predilesse fino a decorare e ad arricchire dei suoi dipinti più cari quella casa, divenuta oggi Museo e da lui voluta quasi a vestibolo dello studio spalancato sull’antistante chiesa di Santa Maria Maggiore e sull’ampia scalinata dei tetti, vista che ritenne privilegio fin "troppo grande" per lui. Fu un amore che lo indusse a desiderare di chiudervi i suoi giorni, come difatti avvenne il 15 aprile del 1988, e che vide qui ricambiato di un pari sentimento di affetto che ha già in varie occasioni consigliato di intraprendere una rilettura della sua esperienza di uomo e di artista non senza prevedere altri importanti sviluppi di studio, come ne vengono auspicati pure per gli altri illustri Maestri, fra i quali spicca il nome del meno fortunato ed incolpevolmente più trascurato Vincenzo Gagliardi. Sull’opera da lui prodotta nel breve arco di una vita spesso tormentata e sofferta, fra lo scadere del XIX e l’affacciarsi del XX secolo, si è già principiato a far luce con una prima rassegna di dipinti voluta nel settembre del 1991, omaggio destinato a venire corroborato da nuovi studi, tanto più ora che la sede dell’Assessorato alla Cultura verrà presto trasferita nei saloni del Palazzo De Giorgi, uno dei quali ha serbato integre sulla volta le sei tempere murali che Gagliardi vi licenziò.

Sono scelte a cui non hanno mancato di fare corona anche altre iniziative pubbliche e private, nel solco delle quali si inserisce, quasi a ribadire, ove ce ne fosse stato bisogno, l’atteggiamento di fondo, sostanzialmente guidato da una apertura priva di pregiudizi condizionanti, anche la recente decisione assunta dall’Amministrazione comunale di Lanciano di promuovere una mostra antologica di Panfilo Napoleone, pittore di grande sensibilità ma non proprio notissimo, ed in parte anche per sua scelta, oltre i confini regionali. Né manca di colpire il significato di riconoscimento solenne che, in piena consapevolezza, ad essa viene annesso dagli organizzatori più diretti, con una finezza degna di venire rimarcata prima ancora dell’ammirata considerazione rivolta alle qualità ravvisate in questo artefice schivo e laborioso. Per cui l’occasione finisce con il tradursi in un tributo di gratitudine per una vita di intensa ed amorevole dedizione alla pittura, praticata, in piena e costante fedeltà a quella figurazione che è stato un tratto fortemente connotante e tuttora vivo in lui, nel silenzio appartato di un paese dell’entroterra frentano, arroccato alle falde della Majella, quale è Palena, in cui Panfilo Napoleone è nato più di ottant’anni addietro e dove è prevalentemente vissuto operando in pace e deliberatamente estraniandosi dai dibattiti più agguerriti e spesso aggressivi sulle sorti dell’arte, non raramente proclivi a condannare talora anche con virulenza "la pittura, e in particolare – per essere espliciti, e per quanto la precisazione possa criticamente valere - la pittura iconica, d’immagine, di figura" nel cui solco la sua ricerca si è sempre inscritta. "La marginalizzazione derivava dal fatto che la pittura venisse considerata, analogamente alla statuaria da parte di Arturo Martini, una lingua morta; espressione dal passato insigne quanto si vuole, ma ormai irrimediabilmente usurato. Lo stesso parlare di pittura, in un clima diffuso – e talora francamente confuso – di contaminazioni radicali di tecniche e di linguaggi, presupponeva all’epoca una scelta di campo ideologica dell’arte, per cui tale contaminazione non era data per scontata, almeno non era accettata fino al punto di dissolvere interamente la riconoscibilità dell’oggetto estetico nella veste tradizionale (il quadro)". Si trattava dei frutti forse più negativi "di tendenze estetiche e prospettive che erano maggioritarie, fino a diventare talora perfino egemoni, in contesti culturali ormai superati", tanto più ove si consideri che quella pittura fino a poc’anzi condannata, "sta tornando prepotentemente a coinvolgere gli artisti e in particolare gli artisti giovani". Tutto questo spiega anche quella posizione di "netto contrasto" intimamente avvertito, del resto neppure solamente da lui forse anche più di quanto dica, "con accreditate tendenze critiche e con blasonate rassegne che la pittura continuano a collocare ai margini della scena, fino quasi ad escluderla, a tutto vantaggio di diverse espressioni estetiche (foto, video, istallazioni, body art, e così via)". E’ perciò agevole comprendere le composite ragioni della sua scelta di tenersi lontano, tranne le visite d’obbligo per esserne aggiornato, dalle più fervide ed accreditate fucine della creatività contemporanea e dai maggiori centri di diffusione di quegli "eventi di inedita portata e di rilevanza traumatica" che si sono avvicendati nel corso della "straordinaria densità creativa" dalla quale è stato caratterizzato il Novecento e di cui egli è stato sempre tutt’altro che ignaro. Sarebbe stata, d’altronde, "follia ignorare" l’insieme di "tali elementi", non fosse altro "perché sempre è stata ed è anacronistica e impraticabile la pretesa di voltare all’indietro le pagine della storia, nella fattispecie della storia dell’arte" .

Che la fedeltà alla figurazione sia un tratto connotante e tuttora vivo in Panfilo Napoleone, appare evidente fin dal primo impatto con la sua produzione. Il suo è stato e resta, in effetti, un percorso alieno da diversioni e sperimentazioni di novità più o meno effimere, dal momento che fin dall’inizio egli ha deciso di affidarsi alle suggestioni generate da una verace e diretta assunzione del reale, dapprima più obiettivamente indagato e quindi ricreato e rimeditato nelle strutture formali e nella varietà dei cromatismi, fino ad acquisire quella disinvolta libertà di tratto e quella carica di intensa, erompente vitalità, in cui consiste la conquista più meritevole della sua maturità e l’approdo più ragguardevole della fase più tarda.

Benché vi abbia guardato ed attinto con criteri progressivamente diversi nel corso della sua evoluzione, la fonte principale per lui è stata ed è rimasta la realtà, che si è rivelata scaturigine sempre più feconda non solo e non tanto di temi, quanto innanzitutto e soprattutto di stimoli e di invenzioni poetiche. Perché, in effetti, dei suoi quadri si può parlare a volte come di piccoli poemi figurativi per quella carica di tensione e persuasione lirica che li trascorre e che non raramente assume la forza di una perentorietà suadente nella molteplicità delle modulazioni e dei profili che, specialmente nelle pagine migliori, non si allentano e non cedono. Una volta superata la tentazione di un supino adagiarsi su schemi fin troppo collaudati e sviliti da una molteplicità di cantori più proclivi alla ripetitiva imitazione che sinceramente ispirati, non era compito facile attingere risultati di tal fatta senza scadere nelle ricercatezze intellettualistiche di schematizzazioni e stilismi, verso cui avrebbe potuto sospingerlo l’esigenza di affrancarsi da certi modi di interpretare il vero già consacrati da una autorevole quanto diffusamente avvertita e seguita tradizione e senza lasciarsi prendere la mano da compiacimenti edonistici o dalle forme di interpretazioni sensuaslistiche, in cui poteva forse sussistere il rischio maggiore e di per sé insito in una scelta come la sua.

Che si tratti di esiti conseguiti non proprio pianamente e non senza affrontare una lunga e probabilmente anche sofferta trafila di studio e di ricerca, non è considerazione tanto ovvia o addirittura scontata quanto potrebbe sembrare, specie ove si consideri come Panfilo Napoleone, superate le remore iniziali e le non lievi difficoltà degli esordi, si era avvicinato alla figurazione dipingendo all’insegna della devozione e del rispetto al dato reale. Da una tale condizione di sudditanza, generalmente suggerita dalla timidezza del neofita, egli riuscì, tuttavia, ad affrancarsi per passare con graduale quanto rapida progressione ad una rilettura sempre più libera e soggettiva del vero, secondo quanto esaurientemente emerge da certi suoi più remoti ed ancora acerbi dipinti che validamente resistono alla dispersività del plein - air in cui furono realizzati. L’esperienza acquisita dipingendo d’après nature, pratica che Panfilo Napoleone ha ormai definitivamente dismesso da quasi cinquant’anni, e l’insegnamento derivatogli dall’osservazione condotta al cospetto del vero, alla quale si è sottoposto per anni quasi obbedendo ed inconsapevolmente tornando ad assoggettarsi in chiave nuova all’antico e collaudato precetto palizziano, ha tuttavia concorso in misura senz’altro notevole e forse determinante alla sua formazione, consentendogli, fra l’altro, di individuare una sua linea espressiva articolata in una vasta gamma di soluzioni e di renderlo padrone delle risorse di un linguaggio gradualmente costruito, sempre più posseduto e tanto personale in certi suoi accenti da risultare alfine, soprattutto in talune accezioni, inconfondibile.

In lui, comunque, non è mai venuto meno l’appassionato interesse verso ogni manifestazione della realtà che lo circonda, che ha amato e che ama, e che sente sia come natura sia come storia, non circoscritta al mero aspetto locale, ma come esempio della più vasta latitudine umana. Le sue radici, d’altronde, sono intimamente confitte nella specifica dimensione ambientale del luogo in cui è nato e nel quale è prevalentemente vissuto, ed hanno trovato fertile nutrimento in una formazione culturale, intesa nel senso più aperto e nobile della parola, che trova le sue principali ascendenze, oltreché nel rimarchevole esempio ricevuto in ambito familiare, nelle scuole e nei maestri frequentati specialmente a Chieti in anni nei quali la Città serbava ancora più vivo e palpitante di quanto possa oggi risultare il segno della sua antica ed illustre tradizione. Ha di qui derivato l’inclinazione a corroborare le sue conoscenze soprattutto in direzione storica e letteraria e ad aprirsi al confronto con l’ampia scena del mondo. Derivano di qui i principali presupposti che ne qualificano il vitale rapporto con la società e la terra a cui appartiene, la predilezione per una cultura, non solo pittorica, di matrice abruzzese. Per cui è senza le ottuse chiusure di un malinteso e cieco localismo che trova le sue origini ed i suoi appigli nel ben preciso contesto, senza per questo rimanerne limitato e condannato alle ristrettezze di un retrivo provincialismo, il principale riferimento della sua fantasia creatrice ed il precipuo ambito dal quale di preferenza trae la gran parte degli stimoli e dei temi che continua a rielaborare in piena libertà di interpretazione e con la straordinaria ricchezza di spunti e di motivazioni evidenziati soprattutto nel paesaggio, che è sempre equivalso per lui alla più feconda fonte di ispirazione. Protagonisti della maggior parte dei suoi dipinti sono, difatti, proprio le vedute generalmente ispirate ai caratteri di quei luoghi, per lo più familiari, che gli appaiono particolarmente significativi e degni di essere storicizzati nei più pensosi o gioiosi momenti di quel loro divenire e trasformarsi nel tempo. Per cui essi finiscono con il tradursi nell’unico filo conduttore di un lungo, infinito ed unitario racconto dai frequenti risvolti autobiografici, denso di una soggettività di visione e di lirica poeticità.

Sono temi rappresentati in innumerevoli pagine, ripresi, riproposti, ma mai ripetuti, riferimento nodale di una poetica pronta continuamente a rinnovarsi nelle sue impaginazioni narrative oltreché nelle sue scansioni creative e pittoriche. Non è mutata, invece, l’intensità degli slanci che presiedono al recupero in punta di pennello di un inesausto dipanarsi di immagini di terra e di mare. Nel suo repertorio non mancano certo le marine, ora proposte sotto le specie di spiagge larghe e distese come falci sul bordo delle acque dai colori intensi contro cui si stagliano le barche capovolte, ora ravvivate dalla festa di ombrelloni e bagnanti, invocate ora per sorprendere cale appartate con figure di pescatori operosi intorno agli scafi ed ora per recuperare amorevolmente i cuneiformi intrecci degli antichi trabocchi d’Abruzzo, alti come fantasiose ed arcaiche palafitte sullo slargare delle increspature di marosi che si rincorrono in un frangersi largo di spume. Sono narrazioni condotte fra efficaci contrappunti tonali che si ripresentano ora in chiave forse più pensosa nelle evocazioni del lento dondolio delle barche alla fonda, che assumono il più delle volte sembianze di remote e solitarie paranze dall’unica vela di rustica tela ammainata sulla tolda e dallo scafo di legno robusto sfiorato dall’onda leggera della risacca, ora nella più drammatica condizione delle selvatiche radure fra le irte pinete adriatiche oltre le quali si scorgono scogli e marosi sotto le nubi arruffate dalla tempesta imminente che sembrano liberamente ondeggiare, esse pure come gli alberi e le acque, propagando all’atmosfera del dipinto il loro fremito.

Più frequenti sono, invece, le vedute aperte delle campagne srotolate fra le alture o ai piedi della Maiella, in certi casi animate dai guizzi di luci improvvise sul primo piano o su particolari lontani, o che fanno emergere con dolcezza dai fondi luminosi casali o fughe di paesi avvolti dalla vegetazione, alberi fronzuti dai tronchi possenti, tratti di fiume fra massi arrotondati come i sassi fra cui si spezza il corso dell’acqua ed i ciottoli dei greti deserti, incassati come quelli dell’Aventino o ampi come nel Sangro ma che potrebbero essere quelli dell’Adda o del Piave; gli angoli appartati e recuperati all’attenzione secondo criteri che fanno pensare alla meditabonda costruzione degli idilli di antica memoria letteraria, le vie più vivaci dei paesi o, più spesso, i vicoli relegati in una quiete che li rende assorti e pensosi, evocati ora fra l’irrompere della solarità più smemorata delle stagioni più calde, ora impreziositi dall’oro o dal rosseggiare del fogliame, ora avvolti nel silenzio invernale che sembra particolarmente affascinare la fantasia di Napoleone. Con l’avvicinarsi del freddo più intenso egli torna ad attendere con ansia, quasi con impazienza di rivivere l’ebbrezza del peculiarissimo clima generato da un mondo ricoperto ed avvolto da un soffice manto di neve e di reimmergersi in esso. E’ la condizione ideale che gli restituisce la tensione giusta per tornare a creare gli intarsi dei grigi che sapientemente recupera da una tavolozza estesa e spesso preziosa, attraverso mestiche che plasma e non raramente sovrappone, fino a dar luogo ad una tramatura pittorica che trascende il limite angusto della pedissequa rappresentazione della realtà, sebbene si appigli a riferimenti oggettivi destinati, però, a tradursi in un mero pretesto per librarsi in squarci di pittura valida nella sua assolutezza di intarsi cromatici e di superfici sapide, capaci di assumere una significativa ed autonoma valenza il più delle volte istintivamente ottenuta fra decise sensibilità di tipo materico.

"Oh l’inverno, l’inverno quando è inverno, /quando il cielo s’oscura e al pomeriggio / primo è già notte e silenzio, e un leggero / scuotersi di vetri annuncia il nevischio / che presto sarà neve, l’inverno / quando si fa di così lunghi giorni / e notti alte e sepolti mattini, / l’inverno che governa i ritorni / di voci e volti da tempo partiti / e tu che fermo li attendi, nel fermo / tempo che è dell’inverno quando è inverno".

Nulla meglio di questi versi, a suo dire, può forse spiegare la peculiare suggestione e le intense risonanze in lui generate dalla stagione più fredda dell’anno. Per cui è facile capire come siano state davvero profonde la sorpresa e la commozione provate quando vi si è imbattuto, contemporaneamente scoprendo, con la raccolta Oh, l’inverno! , di recente licenziata ed a cui proprio questa poesia dà il titolo, l’esigenza di approfondire il confronto con la produzione lirica di Giuseppe Rosato, non senza avvertire il rammarico di non essersi mai imbattuto, nel corso delle sue pur frequenti letture, nelle opere di questo scrittore, noto e per singolare coincidenza originario proprio di Lanciano, dove è stato fra i principali artefici del rammentato Premio di Poesia Dialettale oltreché di altre importanti manifestazioni sia di tipo letterario sia relative alle arti visive, fra le tante di cui altrove è stato spesso regista o protagonista di primo piano.

Benché a ridosso della sua lettura abbia avvertito ed obbedito all’impulso di porre mano ad un dipinto a cui ha assegnato l’intero verso iniziale per denominazione, non è certo l’unica composizione dalla quale Panfilo, come tiene a sottolineare, si sente pienamente coinvolto e che sicuramente aiuta a comprendere l’uomo ed a capire meglio il pittore. "Eccolo il tempo bello dell’inverno / la scalata dei primi incerti cirri / al culmine del cielo, il vento lieve / che fa tremuli i vetri alle finestre / e nella strada l’invisibile sentore / del freddo asciutto che sale dal silenzio. / Ancora un passo e sarà chiuso il giorno, / spento il fuoco residuo nell’inerte / contemplazione della neve nuova. / Nessun varco più per un gesto, resta solo / che si ovatti la mente / e il pensiero vi si imprigioni come / il rintocco della campana chiusa / nel bianco, e sarà sgombra / nella chiara luce la sera". Qui, come in altre poesie, Panfilo ha ritrovato perfino il senso del distacco e del vuoto dolente provato quando "se ne va la nera / nube con tutta la sua neve addosso" e "già sgombro il cielo ad altri amori / si prepara", giacché "pronubo verrà / l’azzurro fondo a precedere il buio / e poi esteso all’infinito / l’abbraccio con le stelle. Che tristissime / cinque della sera in questo marzo / che già ad altro declina, sono / le cinque in punto, sono le cinque / a tutti gli orologi / quando l'ultimo cielo di neve mi abbandona", provocando quella stessa stretta al cuore di cui Rosato si scopre "parafrasando a dire".

Altrove inserisce nel paesaggio anche qualche figura, che fa emergere con dolcezza, ma anche con decisione nel dipanarsi del racconto. Sono contadine impegnate nei lavori rurali, talora viandanti sotto la pioggia, con i larghi ombrelli aperti a proteggere il loro cammino sulle spiagge o per le vie assolutamente deserte, benché sia soprattutto il ricordo di braccianti e terricoli ora appiedati ed ora a cavalcioni dei muli, il più delle volte solitari per le vie campestri e spesso come sperduti nel biancore innevato di vallate o di praterie sconfinate. Tutti partecipano con rara coerenza, senza perdere il loro specifico carattere, all’orditura pittorica per quel sensibile ed opportuno modularne la presenza tra ombre profonde ed acuti slanci di luce. Per cui appare evidente come tali figure non sono state evocate solo per ravvivare e vitalizzare la scena del dipinto, ma sono di volta in volta chiamate a rappresentare le innumerevoli sfaccettature dei ruoli che furono o che sono propri alla gente della sua terra.

Molte di queste composizioni assumono un significato simbolico non molto dissimile, nella sostanza, da quello che si può ricavare da certe rappresentazioni, specialmente recenti, di casolari isolati ed ormai giacenti in uno stato di squallido ed assoluto abbandono, nel quale sembra racchiuso tutto il mesto silenzio della fine di un mondo e della sua epopea. Per cui talora finisce con l’insinuarvisi una intensa e struggente nostalgia di un passato assai prossimo, di quella dimensione di semplice ricchezza dei valori più avvertiti nella vita contadina, pronti a riaffiorare, ma non sotto l’aspetto di un desiderio di recupero o di ritorno o di revivescenza di quel mondo, bensì come sentimento quasi leopardiano del passato. "La rimembranza è essenziale e principale nel sentimento poetico, non per altro se non perché il presente, qual che egli sia, non può essere poetico; e il poetico in uno o in altro modo, si trova sempre consistere nel lontano, nell’indefinito, nel vago" , annotava il poeta il 25 settembre del 1821 nel suo Zibaldone. Per cui "l’uomo sensibile e immaginoso […] vedrà con gli occhi una torre, una campagna; udrà con gli orecchi il suono di una campana; e nel tempo stesso con l’immaginazione vedrà un’altra torre, un’altra campagna; udrà un altro suono". Per cui, "trista è quella vita […] che non vede, non ode, non sente se non oggetti semplici, quelli soli di cui gli occhi, gli orecchi e gli altri sentimenti ricevono la sensazione".

E dunque una ben precisa condizione poetica della memoria quella che in Panfilo Napoleone determina la scelta tematica e la relativa interpretazione pittorica, più che il tentativo di ricreare stucchevolmente la dimensione ambientale che gli aveva invaso il giorno fin dall’infanzia e dall’adolescenza lontana. Ma, più come uomo che in qualità di pittore, egli può talora avvertire il bisogno di rifugiarvisi per trovarvi la necessaria conferma di valori, fra quelli segretamente più amati e fra i più minacciati nel tempo presente, per molti versi capaci di accompagnare nella vita, soprattutto perché è difficile dimenticare il calore umano e la sensibilità verace e senza orpelli di quelle persone che avevano saputo serbare intatta una loro vigoria di sentimenti.

Forse nel processo creativo tutto questo potrebbe entrare assai poco, quanto meno ove si consideri come, da anni ormai lontani, non sia mai sostanzialmente mutato il genere di soggetti prescelti e come, nel rievocarli, egli continui a rimanere sostanzialmente fedele a criteri ed inclinazioni non dissimili rispetto al passato. I paesi ed i personaggi dei suoi quadri erano e restano protagonisti di racconti senza tempo.

"Nella fedeltà alla pittura", però, lo "sappiamo – opera la testimonianza di un’attitudine, di un’aspirazione riguardo cui l’artista non trova diverso linguaggio e mezzo espressivo per rispondere adeguatamente" . E di questa sua pittura priva di preziosismi interpretativi e di rigurgiti culturali credo che si possa, in effetti, parlare come del felice esito di una capacità di far coincidere un ideale estetico da lui spontaneamente vagheggiato fin dall’inizio e lungamente perseguito, di una ricerca di una assolutezza pittorica e formale scaturente da un calcolo ben meditato dei peculiari valori attinenti alla sua concezione della figuratività, in cui la forma pittorica e non già gli elementi contenutistici del racconto, si traducono nel riferimento primario. Si potrebbe, anzi, sostenere come assai spesso il contenuto finisca addirittura con il coincidere con il suo stesso contenitore, che si identifica in una sintassi compositiva e pittorica generatrice di vere e proprie architetture cromatiche, quasi sempre sostenute dalla vigoria di un segno sicuro e di impasti quasi sempre sapidi. Se questo vale per molti dei quadri realizzati ad olio, a maggior ragione vale per i dipinti derivati dalla disinvolta padronanza acquisita nella tecnica ad acquerello, i quali risultano sempre felicemente abbordati con piglio largo e deciso, non raramente pregni di straordinaria intensità e quasi librati in una loro magistrale leggerezza, sia che tendano verso formule concluse con pochi tocchi capaci di evocare tutta una orditura di allusioni senza alcuna necessità di approfondimenti sia che si articolino in più dettagliate analisi liberamente approfondite in punta di pennello senza incorrere nel rischio di frammentazioni o calligrafismi. Sono, perciò, creazioni che, per le loro evidenti qualità, acquistano, in rapporto alla totalità della sua produzione, una valenza di primo piano.

Il pensiero torna a quella idea della pittura rappresentata da Marco Goldin e che, specialmente in certi passaggi, sembra perfettamente attagliarsi al caso di Panfilo Napoleone. Pittura, "[…] il valore immenso di poesia, la sua previsione del futuro, l’intrico e il carico di memorie, la sua struggente accensione nella luce della sera. La sua luce che si muta nel colore dell’interiorità. Una parola che ha dentro di sé l’accadimento del destino" .

A questa idea della pittura Panfilo si era venuto avvicinando fin dall’infanzia sognante, quando, perdendosi a guardare sulla volta del salotto dell’antica casa natale l’affresco raffigurante un saraceno in arcione al cavallo nero lanciato al galoppo, si lasciava trasportare in fantastici voli della fantasia mentre il suo dolce e colto genitore si esibiva alla spinetta che troneggiava nello stesso ambiente. A realizzare quel dipinto, verso la seconda metà del Settecento, fu il fratello dell’avo paterno, quell’altro Panfilo dal quale egli ha ereditato il nome. Per via della pressoché assoluta carenza di dati, specie dopo che quell’affresco, già gravemente danneggiato dagli eventi sismici del 1933, andò definitivamente perduto nel corso della seconda guerra mondiale insieme alle uniche due tele di lui rimaste anch’esse nella avita dimora, di questo misterioso pittore, che si chiamava Samuele Napolione, secondo l’antica forma del cognome solo più tardi trasformata in quella attuale, non è dato di sapere più nulla. Fu probabilmente da lui o attraverso di lui, comunque, che si trasmise quel gene che ha finito con l’infondere in più di un membro della famiglia l’inclinazione all’arte.

Fatto sta che Panfilo era poco più di un ragazzo, quando avvertì l’ineludibile richiamo di quella "elementare vocazione a servirsi di colori e pennelli, di intonachi, tavole e tele, (che) non è mai, in fondo, mutata" nel corso dei secoli; e ne fu tanto prepotentemente irretito da non potersene sottrarre e da rimanerne posseduto per tutta la vita. Ad una tale chiamata, però, non gli riuscì di rispondere come avrebbe voluto, giacché le esigenze della grande famiglia patriarcale, composta dai fratelli di suo padre, che vivevano sotto il loro stesso tetto, e della cospicua prole, formata dai sette figli dei quali Panfilo era il penultimo, non consentirono di fargli intraprendere specifici studi d’arte. Lo stipendio da direttore didattico di Riccardo Napoleone era appena sufficiente per soddisfare le non modeste necessità quotidiane e per sostenere il primogenito Arduino fino al compimento della educazione intrapresa a Napoli, presso l’Accademia di Belle Arti . Panfilo, che aveva otto anni di meno ma non inferiori capacità, fu costretto a non allontanarsi da Palena e ad accontentarsi di proseguire negli studi superiori avvalendosi della guida che potevano offrirgli, direttamente fra le mura domestiche, sia il paziente genitore, da cui venne apprendendo pure la musica e l’abilità nel suonare il pianoforte, e del di lui, ben più severo ed austero, germano don Giuseppe Antonio, l’arciprete.

Si trattava, comunque, di maestri senz’altro all’altezza del compito. Ben presto, in effetti, dovette rendersi conto di come suo padre fosse un buon conoscitore di lettere e di poesia oltre ad essere quel sensibile musicista che aveva conosciuto fin da piccolo, quando lo stupiva mentre faceva vibrare le altissime canne d’argento del fremente organo seicentesco allorché prendeva posto, in chiesa, sull’alto scranno a ponte sulla pedaliera per accompagnare le più solenni funzioni celebrate dal fratello maggiore, e che aveva cullato sul nascere i sogni d’arte in cui si perdeva contemplando ad occhi sgranati il dipinto del saraceno evocato nello stesso salotto in cui egli sedeva alla spinetta.

Lo zio arciprete era un sacerdote coltissimo, senz’altro all’altezza dei migliori e più fortunati religiosi destinati a ben più luminose carriere prelatizie. Oltre a leggere ed a scrivere in tedesco senza difficoltà era in grado di parlare correntemente non solo il francese e lo spagnolo, ma perfino, il latino ed il greco antico, lingua, quest’ultima, che venne chiamato ad insegnare, con la corrispettiva Letteratura, presso il glorioso Liceo classico di Chieti intitolato a Giovan Battista Vico, Istituto che vantava una nobile ed antica tradizione anche oltre i confini regionali. Né aveva mancato di distinguersi come docente di Teologia ed altre discipline religiose nel non meno celebre seminario di quella stessa città.

Frattanto, dopo un iniziale periodo di solitarie ed intense esercitazioni nel disegno, Panfilo aveva gradualmente imparato da solo e quasi segretamente a servirsi dei colori. In quegli inizi resi ancora più faticosi dalla difficoltà di procurarsi un minimo di materiale occorrente al lavoro, che all’epoca veniva posto in vendita solamente nelle grandi città, fu lungamente costretto ad insistere nella pratica dell’acquerello, utilizzando le tinte in pastiglie, giacché per avere a disposizione quelle conservate nei tubetti avrebbe dovuto aspettare ancora qualche anno. Nell’ampia cucina della vecchia casa, che perlomeno in certe ore della giornata gli consentiva di defilarsi dalla stretta sorveglianza dei suoi parenti e maestri, cominciò a copiare tutte le tavole di Beltrame riprodotte sulla "Domenica del Corriere" che riusciva a procurarsi; e c’è di che credere che un testardo ed appassionato tirocinio di tal fatta ebbe la sua parte di rilievo nel consentirne la crescita, quanto meno perché cominciò ad educargli l’occhio alle trasformazioni subite dalle tinte nell’asciugarsi e la mano alla rapidità della esecuzione e del tocco, esperienze e doti indispensabili nell’adozione di questa tecnica, nella quale, in tal modo, finì con il formarsi fin da allora le prime basi. A favorire questo suo sforzo di apprendimento concorse anche il modesto compito di pulire i pennelli che, suo fratello Arduino, fin dall’epoca in cui era ancora studente del liceo artistico, gli affidava allorché tornava da Napoli. In tal modo "potevo guardare tutto quello che faceva mentre lavorava, potevo vedere come prendeva i pennelli, come li impugnava, come dipingeva". Sicché questa umile mansione, che spesso lo teneva impegnato per ore, gli offriva l’opportunità di osservare un pittore all’opera fino a saziarsene gli occhi; e, guardandolo, poteva finalmente introdursi ai misteri di quell’arte senza provare stanchezza. Era, in fondo, un modo per ricevere anche lui un insegnamento, per quanto acerbo, di ascendenza accademica, tanto più che a sera poteva liberamente studiare sui libri di Arduino ed approfondire la conoscenza della Storia dell’Arte alla luce delle numerose riproduzioni in bianco e nero riservate a molte opere straniere, oltre che alle numerose e più rappresentative pagine della pittura italiana. Sicché, come spesso accade ai più volenterosi ragazzi di bottega, finì per rubare il mestiere a suo fratello, cosa di cui questi avrebbe potuto anche menare vanto, ma che il taciturno, scostante ed egocentrico Arduino non gli perdonò e non si perdonò mai neppur solamente in cuor suo, salvo a pentirsene al momento dell’ultimo, tenero ed improvviso commiato.

Fu solamente grazie alla borsa di studio guadagnata per i brillanti risultati ottenuti negli esami di ammissione al terzo corso inferiore dell’Istituto magistrale, che nel 1934 poté finalmente trasferirsi a Chieti e quivi intraprendere una regolare frequenza scolastica. Nel nuovo ambiente si diffuse la voce della sua inclinazione e della sua abilità nel disegno e nella pittura. Né l’apprezzamento rimase contenuto soltanto fra i suoi coetanei e compagni di scuola, se verso la conclusione dell’anno scolastico successivo, in cui frequentò il primo corso superiore, ebbe il suo primo incarico ufficiale in occasione di una straordinaria manifestazione voluta dal Regime fascista. Il 5 maggio del 1936 le truppe del maresciallo Badoglio erano entrate ad Addis Abeba. Quattro giorni dopo, integrata l’Eritrea alla Somalia ed all’Etiopia, venne costituito l’Impero dell’Africa Orientale Italiana e Vittorio Emanuele III ne cinse la corona. Occorreva sottolineare degnamente l’evento anche a Chieti. "Avevano saputo che alla Scuola magistrale c’era un alunno che sapeva ben disegnare e mi fecero chiamare dal Federale: - Mi devi fare il ritratto del Negus, del Presidente del Consiglio francese, di quello inglese e di altri ancora. Ti do carta, pennelli e tutto quello che ti serve… -. I risultati piacquero e nelle successive occasioni fui chiamato a ritrarre altri personaggi , finendo con il guadagnare la simpatia del Federale".

L’anno seguente, con un disegno raffigurante una veduta di Bucchianico, il paese che si scorgeva dalla finestra della casa in cui abitava, fu prescelto a partecipare alla fase preliminare dei "Ludi iuveniles" che ebbero luogo a Roma, classificandosi "primo fra gli abruzzesi e secondo a livello nazionale". La solenne cerimonia della premiazione ufficiale ebbe luogo l’autunno successivo, all’inizio del suo terzo ed ultimo anno superiore, alla conclusione del quale neppure il Federale che lo aveva preso in simpatia riuscì a salvarlo dal rinvio ad ottobre, dalla bocciatura e dalla definitiva perdita della preziosa borsa di studio. Sarebbe stata la fine della sua carriera studentesca se il Comm. Giuseppe Campana, amico di suo padre ed all’epoca Rettore del prestigioso Convitto Nazionale "Longone" che occupava tutto l’edificio in cui ha oggi sede la Questura di Milano in Via Fatebenefratelli, non lo avesse condotto con sé per fargli frequentare, senza gravare affatto sulle economie della famiglia, il terzo ed ultimo corso superiore presso l’Istituto "Virgilio" di quella città nell’anno scolastico 1939 – 1940. Peppino, come familiarmente lo additavano in casa, gli aveva offerto uno dei posti da istitutore che, per l’intensificarsi dei primi richiami militari, erano rimasti senza titolare e che, impegnandolo solo di pomeriggio nel controllo dei convittori più giovani a cui era adibito, gli consentiva di frequentare regolarmente le lezioni. "Era lo stesso collegio in cui aveva studiato Manzoni dopo essere stato dai Salesiani. Ebbi, anzi, perfino il modo di avere fra le mani i manoscritti vergati ad inchiostro di china che lo riguardavano e di leggere i voti molto alti da lui riportati nelle materie letterarie e quelli relativamente più modesti, sul sette, in quelle scientifiche".

Non appena seppe che era stato istituito un premio di pittura riservato agli studenti delle scuole artistiche e non, Panfilo si fece avanti, non senza destare la meraviglia dei compagni di classe: "Oh, il terun!", come bonariamente lo chiamavano.

"Quando uscii dal convitto per andare alle eliminatorie, si sentivano distintamente i rumori lontani del bombardamento navale su Genova messo in atto dalla flotta anglo - americana. Al concorso decisi subito di rinunziare, perché il compito assegnato a quanti non frequentavano gli istituti artistici, che consisteva nell’illustrare il soggetto per un gagliardetto con elmo e fucile, non mi suggeriva niente". Sennonché l’anziano professore, che lo scorse in ammirazione del gruppo marmoreo del Laocoonte, conservato in una delle sale in cui Panfilo si era fermato mentre andava via, quando da lui seppe che gli sarebbe piaciuto riprodurre proprio quella statua, e per di più ricorrendo all’impegnativa tecnica dell’acquerello, gli consentì senza esitazione di affrontare quel lavoro in sostituzione del tema ufficiale; né mancò, due ore più tardi, di apprezzare e di additare anche agli altri, ancora impegnati nell’adiacente salone, l’efficacia del risultato ottenuto da quel ragazzo. "Grazie a quell’acquerello risultai primo della Lombardia e terzo in Italia".

Sono vicende che mettono in evidenza non solo i promettenti sbocchi che si aprirono alla determinazione della sua volontà, quanto pure quel particolare clima di tragedia incombente che segnò l’arco di tempo in cui il Fascismo andava tramontando. Era il 1940: "quell’anno le scuole chiusero a maggio ed io tornai a Palena con il diploma. Il 10 dello stesso mese ci fu la dichiarazione di guerra. Fui richiamato e partii il 7 dicembre. Avevo 19 anni".

Sarebbero passati molti, troppi mesi prima che gli sarebbe stato possibile riprendere in mano il pennello e prima che il graduale ritorno alla normalità avrebbe consentito a lui come agli altri di guardare nuovamente al mondo circostante ed agli spettacoli della natura con la necessaria serenità. Quando finalmente tutto questo avvenne e gli fu possibile tuffarsi nell’amata attività creativa senza più le remore e le limitazioni subite in precedenza, nell’orditura dei suoi dipinti finì con il riaffiorare più di un segno della cultura figurativa nel frattempo assorbita, a principiare dagli echi delle prime, lontane acquisizioni derivategli sia dall’esame attento delle riproduzioni contenute nei libri di Arduino sia dall’esempio venutogli dalla produzione pittorica del fratello, alla cui elaborazione egli aveva assistito fin dalla fanciullezza. E’, d’altronde, proprio a queste ultime esperienze, mai dimenticate benché forse ritenute per molti versi ininfluenti o trascurabili in tale specifica direzione, non si può non riconnettere il riaffiorare di certi modi della pittura di Arduino a cui si assiste in alcuni suoi quadri. Si tratta, del resto, di quella sorta di reciproche interferenze che si vedono in molti casi rifluire in pittori che hanno avuto un qualche insegnamento o un qualche tirocinio in comune. In Panfilo, però, certe rigidità di sapore accademico non infrequenti in Arduino, si stemperano in una maggiore larghezza del fare, in una disinvoltura ed in una immediatezza che risulta spesso sconosciuta all’altro. Sembra evidenziare assai bene il diverso modo di intendere la pittura e di porsi dinanzi al vero da parte di ciascuno di loro, la circostanza ricordata da Panfilo parlando "dei godimenti quasi epidermici" da lui "provati per i bei colori specialmente del cielo e dei campi", dai quali è sempre stato, ed a maggior ragione viene oggi, indotto a dipingere. "Mentre stavo lavorando ad una tela sentivo il bisogno del giallo e non sapevo come concretizzare quello che sentivo. Provai ad inserire un’ampia macchia gialla che occupava gran parte del primo piano. Era naturale che pensassi ai bei campi di grano maturo. Ma il risultato non era soddisfacente per rappresentare quello che avevo in mente. Allora mi ricordai di quei piccoli pagliai che erano frequenti sotto Guardiagrele, con il tetto ad uno spiovente solo, fatti di pietra vecchia e senza intonaco, ma tutti dipinti di nero con il catrame. Ne riprodussi uno al centro della macchia gialla e solo allora l’effetto si avvicinò a quanto avevo pensato. In quel momento entra Adruino. - Che cos’è questo! -, gridò additando il quadro. Per lui, che era un professore dal punto di vista della formazione accademica, non era accettabile. Finì in un alterco. Lui a dire che nella realtà non c’era niente che si avvicinasse a quello che avevo fatto io e che tutto nel mio quadro era sbagliato. Ed era così se lo diceva lui che dipingeva dal vero da oltre quarant’anni. – Quel nero mi serviva per dare risalto al giallo -, dicevo. – Io dipingo quello che vedo e quello che sento dentro di me, non la realtà! Nella mia pittura c’è poca tecnica, è vero, perché non ho frequentato alcuna scuola, ma molto del sentimento che nessuna scuola può insegnare – ".

Oltre a ribadire come per sensibilità e carattere i due non furono mai molto affini nonostante la consanguineità, tali asserzioni si fanno particolarmente interessanti e rivelatrici del modo di intendere la pittura da parte di Panfilo.

"Da quando mi sono impadronito meglio dei mezzi tecnici, ho sempre provato a dare forma a quello che sentivo dentro di me. Adesso sono diventato più autonomo e non mi fa tanta impressione quello che fanno gli altri. Ora è il solo paesaggio che mi interessa. Alberi, monti, mare non finiranno mai di esistere finché ci sarà la vita. La natura rimane sempre ciò che è, e non si trasforma mai nella sua sostanza. Perciò il tema del paesaggio può avere un valore più duraturo rispetto a quello basato sulla presenza transitoria dell’uomo, che si trasforma continuamente. Comunque il paesaggio mi ha trasmesso sempre le emozioni più intense, mi ha fatto nascere e crescere il sentimento che vorrei sapere esprimere. Fino ad ora non ho raggiunto questo ideale, ma forse ci arriverò".

In gran parte della sua produzione tuttavia, né potrebbe essere diversamente, si possono cogliere elementi o criteri o frammenti di dettato pittorico che è possibile riconnettere al composito ventaglio degli esponenti della più illustre tradizione figurativa a vario titolo ammirati. Il ricordo dei maggiori maestri è, del resto, patrimonio indispensabile e nello stesso tempo stimolo e motivo di imitazione, che, sia pure nelle apprezzabili vesti di una rivisitazione e di una rimeditazione in chiave personale, obbedisce ad un processo naturale ed inevitabile in lui come in qualunque pittore. Per cui, anche la sua più brillante produzione di paesista non manca di rivelare i debiti da lui inconsciamente contratti nei confronti sia dei più felici creatori del periodo impressionista sia dei vari pittori tardo ottocenteschi e di inizio Novecento dell’ambito italiano, prediletti nella prima fase e conservati anche più tardi, quando si mostrò proclive ad accogliere pure qualche altro genere di suggerimenti credibilmente desunti dapprima da paesaggisti più recenti, come Soffici, ed, in una fase più avanzata, dalle nuove suggestioni esercitate dai cromatismi che furono cari e propri alla tavolozza dei più noti esponenti della Scuola romana, a partire da Mafai.

Né va sottaciuto come la predominante inclinazione di vedutista, dalla più intima e generosa vena, sembra talvolta precludergli una adesione altrettanto verace e partecipata ad altro genere di tematiche. Egli, infatti, non sembrò mai conseguire o raggiungere una pari intensità di risultati, non tanto nei ritratti, in cui affiorano slanci efficaci specie nelle esecuzioni ad acquerello, quanto soprattutto nei casi in cui la figura umana si accampa da protagonista assoluta nel dipinto. Nei risultati migliori vi ricorre, forse più scoperta che altrove, la memoria dei Maestri dell’impressionismo e del post impressionismo. In altri momenti vi si affacciano perfino sensibilità di ascendenza espressionista, oltre ad una variegata gamma di influenze, di volta in volta riconducibili ai maggiori protagonisti della pittura italiana, a principiare da Boldini. Pur nella rilevante spontaneità del fare che talora ne contraddistingue la realizzazione, certe sue misteriose donne con cappello, evanescenti e lontane ammaliatrici di un mondo che ormai appartiene solo al ricordo, più che creature terrene, si direbbero astratti simboli di una femminilità d’altri tempi. Si tratta, comunque, di una tematica non molto frequente nella sua produzione, anche perché è generalmente l’evocazione paesistica a connotare ed a calibrare pittoricamente e compositivamente l’evocazione dei suoi personaggi, dal momento che, tranne nelle poche circostanze a cui si è fatto cenno, egli ha quasi sempre preferito inserirle nelle vedute.

All’inizio, egli confessa, "mi affascinavano soprattutto i colori della vita dei campi e della condizione agreste di una volta". Frequenti sono infatti le scene di questo tipo, spesso capaci di ricordare soluzioni care a vari maestri che vissero a cavallo fra Otto e Novecento. Certe sue contadine piegate sulle zolle potrebbero talvolta ricondurre la mente, almeno per la positura, perfino a quelle mondine chine nelle risaie evocate da Angelo Morbelli. Ma i richiami più frequenti riconducono ad una tradizione di ascendenza ottocentesca di ambito partenopeo, che il più delle volte affonda le prime e più cospicue radici nell’ambito di quel gusto michettiano, a cui fino a qualche anno addietro Panfilo appariva assai più legato rispetto a quanto accada di constatare in epoca più recente, come indicano i profili delineati e protesi in avanti delle popolane generalmente assise sui crinali, i fazzoletti colorati in cui avvolgono il capo contadinelle e pastore da lui ripetutamente prese a soggetto. In altri casi, specialmente quando si tratta di raffigurazioni di ragazze e signore sedute nei giardini o in sosta nei parchi, le sue prove non sembrano prive di ricordi avvicinabili a certo clima pittorico evocato, ad esempio, da Raffaele Ragione e da altri maestri di formazione napoletana. Se in alcuni gruppi o nelle comitive multicolori e nelle piccole folle variopinte immerse nelle mattinate di sole fra i parchi o sui belvedere domenicali, si riaffacciano ancora echi di ascendenza impressionista, le non molte, più pensose e commosse raffigurazioni della solitudine ingrata e sofferta riservata ai vecchi chiusi nel loro silenzio, da lui licenziate nei tempi più recenti, riportano alla mente alcune figure dolenti del giovane Picasso dei periodi bleu e rosa

Si tratta, in altri termini, di modelli senz’altro molto illustri, che non è, di volta in volta, difficile individuare con apprezzabile approssimazione in certe pagine o in certi squarci, ma dai quali, tuttavia, quelle sue prove possono ritenersi solo vagamente desunte, e per lo più a livello pressoché inconscio; e, pur avendo offerto spunti preziosi alla ideazione o alla stesura, tornano comunque a riemergere da quelle pagine attraverso le scansioni spiccatamente liriche di una vena sostanzialmente personale. Per cui si può asserire che il caso di Panfilo Napoleone può aggiungersi ai numerosi esempi utili a favorire il tentativo di esplorare, comprendere e districare i misteriosi percorsi seguiti dalla mente umana nel suo insondabile lavorio di recupero e di restituzione, sotto forma di sensazioni ed impressioni quasi sempre imprecise, ma in ogni caso pronte a riaffiorare, al cospetto dei particolari aspetti dello spettacolo della vita e della natura, da quell’intreccio di memorie cresciute come stalattiti formate dalla decantazione di tutta una cultura figurativa e non, frammista all’insieme delle esperienze accumulate nel corso degli anni.

Nessuno forse più di Panfilo, però, è ignaro di questo processo che non lo interessa. Tuttavia, benché non possa non rassegnarsi all’idea di quanto inevitabile sia, per un pittore, il rischio di incorrere nel déja vu, a lui basta il semplice sospetto di essere, suo malgrado, caduto in una qualsiasi forma di imitazione per desistere dall’elaborazione di un dipinto. Lo scrupolo di evitare ogni appropriazione indebita ed il desiderio di tenersene ben lontano sono, comunque, tanto accentuati in lui da trasformarsi talora in una sorta di timor panico. Per tale ragione, non è stato facile persuaderlo a completare l’elaborazione di quell’ampia tavola in cui aveva principiato a rievocare La ritirata di Russia, solo perché un primo suggerimento gliene era venuto dallo scatto fotografico di un celebre operatore di guerra riprodotto su uno dei libri di cui aveva tempo addietro affrontato la lettura, ma di cui non conserva più memoria precisa. Sicché, è piuttosto per un atto di fede nell’amicizia che per intima convinzione se il quadro viene esposto nella presente circostanza, nel corso della quale verranno forse anche altre conferme ad attestare come in esso trovi una sua adeguata valenza la soluzione pittorica cercata attraverso l’efficacia dei contrasti cromatici e la strutturazione delle masse distribuite secondo le esigenze compositive che obbediscono agli schemi suggeriti dal suo istinto più di quanto la descrizione possa restare fedele all’immagine a suo tempo veduta e della quale è consapevole di non aver rispettato le peculiarità narrative.

E’ un quadro di cui , di cui possono forse innanzitutto attrarre le scansioni più persuasive e maggiormente degne di nota dal punto di vista pittorico ravvisabili, per esempio, nei verdi marci e nei neri intensi. A volere, tuttavia, rimanere nell’ambito degli insondabili riflussi della memoria, diventa difficile non scorgere, nella raffigurazione di quella lunga teoria di soldati in marcia nella neve, l’insinuarsi di un empito dei personalissimi ricordi connessi a quel ritorno difficile toccato anche a lui, sergente sbandato di fanteria, come alle migliaia di altri militari, dopo quel tragico 8 settembre 1943 in cui venne diffusa la notizia della pace separata stipulata e dell’armistizio sottoscritto dall’Italia cinque giorni addietro con gli ex nemici anglo – americani, determinando il noto sconvolgimento e disorientamento nelle fila dell’esercito. Il suo peregrinare dalla Jugoslavia ebbe una sosta di qualche serenità a Sacile, dove un calzolaio e la sua famiglia, nonostante i rischi gravissimi, generosamente lo ospitarono insieme ad altri commilitoni e gli procurarono documenti falsi. Ma il richiamo della sua terra e degli affetti domestici fu più forte dei pericoli connessi ad un viaggio attraverso tutta l’Italia settentrionale e centrale occupata dalle truppe della Wehrmacht a maglie decisamente serrate, attraverso le quali, tuttavia, riuscì miracolosamente a filtrare fino ad Ancona. E fu qui che, mentre cercava di defilarsi sulla spiaggia deserta in attesa della complicità delle tenebre, venne fermato da un carabiniere della polizia militare, come dicevano le mostrine dell’Arma applicate sulla divisa dello stesso grigio – verde indossata dai soldati e la fascia bianca stretta al braccio con la scritta in tedesco "Polizei". Reso quasi truce dall’elmetto calcato sul capo e dal fucile mitragliatore imbracciato, gli intimò di esibire i documenti. Dal falso attestato su carta da bollo di cui era in possesso, Panfilo risultava essere uno studente di medicina, unica categoria di giovani ad essere allora esonerati dal servizio militare, nato a Sacile ed autorizzato a sfollare a Chieti. Da esperto carabiniere qual era, e tanto più che ogni tentativo di farsi scambiare per settentrionale naufragò miseramente, il severo indagatore subodorò l’inganno. "- Paisa’, io sono di Castel di Sangro -, disse. - E io sono di Palena -, risposi. Così caddero le maschere. Veniva dalla Francia, donde era scappato ed era arrivato fin lì non so come ". Rivelatosi infine per quel che era, sbandato intimorito ed affamato pure lui, il poliziotto gli propose di fingersi nel suo prigioniero, onde potere meglio sviare gli implacabili controlli a cui raramente sfuggivano i maschi della loro età. Temerariamente e senza proferire parola alcuna proseguirono in treno quel loro rocambolesco viaggio che non senza ansie e peripezie si concluse con il desiderato ritorno a Palena da parte di Panfilo, rimasto per tutto il tempo del difficile peregrinare con i polsi legati dalla catena tenuta stretta nel pugno, all’opposto capo, da quel suo singolare compagno. Se questi fosse poi rimasto braccato o avesse altrettanto felicemente raggiunto Castel di Sangro, che era la sua meta, egli non lo seppe mai, innanzitutto perché fra le tensioni di quella avventura in loro non si era neppure affacciata l’esigenza di conoscere i rispettivi nomi.

"Arrivare finalmente a casa e doversi rimettere per la via di un pellegrinaggio nuovo e forse anche più penoso fu tutt’uno", giacché i Tedeschi, decisi ormai ad abbandonare le posizioni su cui si erano attestati per otto mesi, intimarono lo sfollamento immediato agli abitanti di tutti paesi dislocati lungo la linea Gustav e nelle più immediate adiacenze, nel preciso intento di far saltare con il tritolo i ponti e le abitazioni dei centri che si lasciavano alle spalle, onde rallentare l’avanzata delle truppe nemiche con la loro strategia della terra bruciata. Per cui Panfilo si trovò a Bari con tutti i suoi familiari e gran parte dei compaesani, fra migliaia di profughi qui convenuti, quasi tutti con la sola ricchezza dei panni che avevano addosso, da ogni dove, ma soprattutto dal centro della Penisola. Due o tre giorni dopo l’arrivo, mentre aspettava suo padre in un corridoio dell’Ufficio Alloggi in cui si assegnavano le case agli sfollati se e quando era possibile, quasi senza pensarci trasse dal taschino della camicia militare, rimastagli addosso da tre mesi, un dimenticato mozzicone di lapis e cominciò a disegnare sulla soglia della finestra al primo piano, presso la quale si era fermato, il paesaggio che si spalancava dinanzi ai suoi occhi. Era pietra di Trani, levigata dagli anni, di un bel biancore caldo. " L’indomani, quando tornammo, - Sei stato tu a fare quel disegno!? -, lo apostrofò il Capufficio che attendeva mio padre, con una perentoria severità d’altri tempi in cui pareva vibrare il tono di una oscura minaccia. - Si, ma lo cancello subito -, risposi. Dati i tempi, si poteva temere di tutto. – No! -, disse tornando nella sua stanza, donde lo sentirono concitatamente annunziare per telefono: - L’ho trovato, l’ho trovato! -. Riemerse subito dopo con la chiave di un appartamento che consegnò a mio padre congedandolo rapidamente ed invitandomi a seguirlo. Raggiungemmo in macchina la zona del teatro Petruzzelli e, finalmente, in una stanza al terzo piano di un elegante edificio, venne la spiegazione. Era la redazione di una rivista femminile, ‘La Gioconda’, che avevano fondato e che realizzavano, illustrandola, come meglio allora si poteva, con immagini in bianco e nero, al cui capo –redattore, dall’aspetto giovanile ed elegante, venni presentato: - Non ci fare caso, è un profugo -, gli disse il mio accompagnatore prima di andarsene, alludendo alla barba e ai capelli che non tagliavo da mesi, oltre agli abiti logori e sporchi. Allora il Dr. Averini, come appunto si chiamava, - Molino!, disse ad un signore seduto dietro ad una scrivania, fai un esame a questo giovanotto -". Panfilo non conosceva Walter Molino, il raffinato acquerellista destinato a subentrare ad Achille Beltrame nell’incarico di illustratore della "Domenica del Corriere". Fu lui, comunque, a condurlo in un ambiente tutto ingombro di fogli di carta e cavalletti, dinanzi ad uno dei quali gli mise un carboncino in mano invitandolo a disegnare qualcosa. Poiché il suo parere sulle prove improvvisate fu favorevole, Panfilo Napoleone venne accolto come collaboratore della rivista con un assegno mensile di tremila lire, una cifra di tutto rispetto allora, grazie alla quale fu possibile all’intera famiglia non digiunare nei mesi che seguirono. Panfilo realizzava i disegni da presentare sul davanzale della finestra dell’appartamento in cui non c’era nemmeno un tavolo su cui poggiarsi, ma che erano stati fortunatissimi ad avere avuto, quasi certamente grazie a quello schizzo realizzato per caso sulla pietra di Trani.

Frattanto, "a Bari era rientrato pure Arduino, che, quasi certamente grazie al generale Armellini di cui era amico, era qui stato assegnato al 9° Corpo d’armata come disegnatore topografo, e, quando poteva, veniva a casa, si sdraiava sul letto e guardava le mie tavole senza parlare.

Un pomeriggio di febbraio incontrai ai giardini pubblici un giovanotto alto, vestito ancora da granatiere, originario di Milano, dove non era potuto rientrare. Si chiamava Carcopino Vincenzo, e poiché era uno sbandato, affamato e senza casa come ero stato io, pittore anche lui, lo presentai ai responsabili della rivista dai quali ero stato ingaggiato. Presero anche lui e lavorammo insieme da metà febbraio fino alla fine di novembre. Fu lui che cambiò ed arricchì la testata".

L’unica ombra di quella esperienza di illustratore si allungò pericolosamente sulla sua precaria carriera e sulla stessa rivista quella volta in cui disegnò in primo piano, analizzandola forse con eccesso di zelo rispetto a quella indossata dall’inglese in secondo piano, la divisa di un militare tedesco, che lo "affascinava di per sé e al di là di ogni ideologia", provocando un trambusto tale da indurre l’AMGOT a sequestrare tutte le copie del numero in cui la tavola era stata riprodotta. Per il resto furono lunghi e piacevoli mesi di lavoro, non raramente gratificato dal consiglio e dalla guida equilibrata di Walter Molino che gli offrì una nuova importante occasione di confronto e di crescita. "Il mio impegno più frequente era quello di illustrare le novelle di Alba De Cespedes, che si era separata ma era rimasta in buoni rapporti con il capo redattore della rivista, il Dr. Averini, il quale mi disse che la scrittrice preferiva le mie alle tavole di Molino. Tutti, ad ogni modo, erano molto cortesi con me ed apprezzavano quello che facevo. Mi proposero perfino di trasferirmi a Milano con loro quando si sarebbero riaperte le linee. - Farai fortuna! –, dicevano. Ma io non avevo alcuna voglia di affrontare altre incertezze dopo le avventure corse. Volevo solo occuparmi dei miei e tornare a Palena. Un bel giorno, era un pomeriggio di novembre anche se il clima pareva quello di un autunno appena avanzato, trovai le porte della redazione sbarrate dai soldati della Polizia Militare, che permettevano a tutti di entrare ma non consentivano a nessuno di uscire. Ebbi, ad ogni modo, la fortuna di sfuggire ancora una volta alla cintura dei guardiani e de scampare ad ogni complicazione del caso. Da quel giorno non ci tornai più. Seppi poi che la rivista era stata chiusa dagli alleati perché sospettata di coprire di una qualche attività politica".

Infine, quasi quattro anni dopo da che se ne era allontanato per andare a frequentare a Vittorio Veneto il corso per allievi ufficiali, poté finalmente rientrare in quello che era rimasto del suo paese, ormai coperto di macerie e dove più nulla sarebbe stato come una volta. La lunga, buia parentesi lo aveva forse arricchito sul piano umano, come generalmente accade, ma non gli aveva nemmeno consentito di stringere una amicizia duratura e costruttiva con quanti aveva incontrato dentro e fuori dei confini d’Italia, dove soprattutto aveva militato insieme a colleghi destinati ad assumere, una volta tornati alla vita civile ed alle loro attività, un ruolo di primo piano nel mondo della cultura e dell’arte. Fra costoro ci furono, infatti, personaggi come Antonino Trizzino, il saggista che raggiunse una diffusa notorietà soprattutto con le pagine di Navi e poltrone (Longanesi, 1959) e forse anche lo scrittore Camilleri.

Egli avrebbe potuto cercarli più tardi e riannodare con loro un rapporto che avrebbe potuto favorirlo. Ma non lo fece, al pari di come si regolò, per esempio, con Ilia Peicov, che dopo aver visitato una sua personale, "- Caro Maestro -, mi disse nel suo italiano ricco di interferenze straniere, - ho girato molto, ma tu stai sopra, sopra… -, e sottolineava le parole con un gesto della mano verso l’alto volendo intendere al di sopra di tanti altri" e, abbracciandolo con trasporto, lo invitò, ma invano, a raggiungerlo a Roma. Panfilo Napoleone avrebbe senz’altro potuto imboccare una via ben diversa, forse più facile ed agevole, probabilmente più fortunata, se si fosse adeguato al gusto che si venne sempre più largamente diffondendo. Avrebbe potuto tentare la scalata di un successo che il mutare dei tempi avrebbe anche potuto favorire. Ma vi rinunziò in partenza, consapevolmente e senza mai pentirsene. Ciò non di meno ha conseguito vari premi e tre suoi dipinti sono entrati a far parte del Museo d’arte "Costantino Barbella" di Chieti, mentre nella Sala dei ricordi storici, situata al piano terra del Museo storico dei Granatieri di Sardegna a Roma, è stato collocato, contraddistinto dal n° 252, un suo ritratto ad olio raffigurante un ideale Granatiere del Golico, località in cui quel Corpo si distinse particolarmente fra il febbraio ed il marzo 1941, durante la Guerra d’Albania.

Quello che conta, però, e che ha sempre avuto valore per Panfilo è stato l’amore fine a sé stesso per la pittura, immutato nel tempo. Per lui è essenziale cogliere la poesia delle piccole e semplici cose offerte dal quotidiano, lo spettacolo sempre sorprendente della vita e della natura, l’intensità di certi attimi dei quali, senza una precisa ragione, resta impresso il segno nella memoria, come può, per esempio, accadere per un volo planante di gabbiani sulla breve scogliera prossima alla spiaggia di cui parla un suo piccolo cartone telato, e trovare da questo o da altro genere di stimoli la via per fermare di volta in volta gli estremi di una nuova e coinvolgente elegia visiva.

Marzo 2003

Cosimo Savastano